Ci sono quelle storie per bambini dove la piccola protagonista finisce in un mondo spietato pieno di streghe e licantropi, fili spinati ovunque.
E sono tanti i pericoli che incontra, che ogni volta sembra scamparla appena. Sono infiniti i colpi che riceve, e ogni volta si potrebbe credere che stia per crollare. Invece continua, portando con sé una guarigione che diventa una testimonianza di libertà, una spinta ad evadere dalla cella.
E continui a chiederti se è proprio vero che l’infinito dolore, se non ti ammazza, ti porta talmente dentro te stesso, da essere capace di entrare nel mondo degli altri, e di fare entrare gli altri nel tuo, in una connessione profonda che nutre di empatia mondi inariditi e persi nel silenzio.
Simona De Robertis, è una di queste bambine, con una lunga scia di dolore e sofferenza, e un’altrettanta capacità di crescere, conoscere, aiutare.
Quando l’ho sentita al telefono, per fare questa intervista, mi rendevo conto che per certi aspetti lei è, ancora adesso, un cuore bambino, capace di scrutare fino in fondo gli animi degli altri, e vedere quello che pochi riescono a vedere.
Da piccola non sentì calore e affetto intorno a sé. Ragazza più grande stava per conto suo, quasi isolata ed emarginata dagli ambienti in cui si trovava. All’università il suo volto fu devastato da una dermatite terribile, con mille piaghe su viso e corpo, piaghe che a un certo punto scoppiavano in sangue e siero, e la pelle che la notte si attaccava ai cuscini. Un volto così deturpato che la gente si ritraeva da lei spaventata e la temeva, quasi fosse portatrice di un oscuro contagio. E poi il dolore di due aborti. E poi.. un cancro al seno, e il trovarsi imprigionata nel mondo dell’industria medica, con dottori che l’hanno vista come un numero, una routine o una mucca da mungere.
Simona ha conosciuto il panico che ti viene messo addosso quando hai un tumore, per spingerti a fare operazioni radicali il più presto possibili.
Ha conosciuto le diagnosi standard ma inappellabili, che non ammettono discussioni.
Ha conosciuto l’avvelenamento della chemio. L’ha conosciuto fino al momento in cui ha deciso di non volere fare avvelenare il suo corpo.
E non è mancata la disumanità di quei professionisti della medicina che hanno raggiunto un tale grado di castrazione emotiva da ridacchiare, con lei a pochi centimetri da loro, circa l’inutilità, per lei di conservare gli ovuli con la crioconservazione, dato che, per le sue condizioni, non avrà la possibilità di utilizzarli.
Il paziente ricoverato con una grave diagnosi è terrorizzato dall’ansia. E spesso si trova dentro una macchina spietata dove non c’è riguardo, sensibilità, comprensione, rispetto umano.
La storia di Simona è anche la storia di chi non si ferma al “pacchetto pronto” dell’unica via legittima, e sceglie altri percorsi. Dalla terapia Puccio all’ascorbato di potassio, ad altro, lei ha cercato approcci più vicini a una visione umana e non disumana della vita.
Tutto quello che sta imparando, lo condivide quotidianamente, per dare ad altri un’occasione in più di non perdersi nel labirinto.
Vi lascio all’intervista che le ho fatto.
-Quanti anni hai e dove sei nata Simona?
Sono nata il 14 febbraio 1973. A Torino.
-E dove vivi attualmente?
A Milano.
-Non hai l’accento “lombardo”…
Mio padre è pugliese e mia madre piemontese. E, poi, nel corso della mia vita mi sono trasferita in tante città diverse. Ho preso un po’ da tutti.
-Quale è stata la tua esperienza di vita?
Ho avuto un’infanzia problematica. Mi sono trasferita tante volte e non ho mai avuto la possibilità di mettere radici in nessun luogo. E non è stata un’infanzia facile anche per molte altre ragioni. A volte mi sono sentita profondamente sola. Sono cresciuta con l’idea di essere immeritevole di amore e accettazione, anche perché mai nessuno aveva il tempo di ascoltarmi davvero o di affezionarsi realmente a me. Partivo sempre prima che ciò potesse accadere. Quando ti si radica dentro un’idea del genere e quando vivi tutto in completa solitudine, nel corso della vita andrai poi ad intercettare tutte quelle esperienze e situazioni che confermeranno questa tua idea. Questa visione che vive in te, nell’ombra, senza che tu ne abbia coscienza. Arriva alla coscienza solo quando lavori profondamente su te stessa. Io credo che il seme del Cancro sia nato lì, in questa infanzia senza basi solide e un po’ folle, senza radici e senza sicurezze. E, poi, gli ho dato ulteriore nutrimento per farlo sbocciare.
-Si sente come hai fatto un grande lavoro su te stessa…
È stato il mio modo per emergere dalle sofferenze. Ad un certo punto, per non sentirle, ho addirittura imparato ad uscire dal corpo. Ed è qualcosa che riesco a fare anche adesso. Spontaneamente. Infatti l’espansore mi fa molto male, ho il muscolo pettorale in necrosi, ma sono capace di non sentire i dolori del corpo. È come se riuscissi a guardarmi dall’esterno e non provassi più niente. Un allenamento spontaneo che nasce nell’infanzia.
-Nessun dolore…
Sì. Proprio così. Riesco a staccare la testa e a non sentire, se voglio. Però richiede un enorme investimento di energie e non sempre ce la faccio.
-Quando parli di “uscire dal corpo”, intendi anche esperienze di premorte?
Quell’esperienza l’ho vissuta una sola volta. In quel periodo convivevo con un ragazzo e lui era via. Era tornato a trovare i suoi genitori, perché abitavano lontani. Nel dormiveglia, una parte di me si è come “sganciata”. È uscita spontaneamente dal corpo e mi ha guardata dall’alto. Ad un certo punto mi sono ritrovata a galleggiare sopra gli edifici e poi dentro casa sua e l’ho visto entrare nella villa dei suoi genitori con una ragazza. Quando alcuni mesi dopo gli ho chiesto di quella sera e di ciò che avevo visto in quello stranissimo “stato”, ho scoperto che le mie descrizioni dettagliatissime corrispondevano al vero. Però non era stata una cosa volontaria. È avvenuta per conto suo. È stato un po’ come se il mio spirito mi volesse mettere in guardia, credo. È come se mi avesse mostrato sul piano cosciente come andavano realmente le cose.Tutta la mia giovinezza e l’adolescenza sono state davvero difficili. Sono diventata una persona che non sapeva chiedere. Neppure le cose più banali, intendo. Gridavo rabbiosa, ma non chiedevo nulla. Ero senza voce. Soffocavo tutto. -Perché?Perché ciò che mi veniva dato aveva vita breve. E c’era sempre sullo sfondo questa sensazione di non valere, di non contare nulla. La scuola è stata invece molto importante per me, perché era l’unico ambito in cui sentivo di ottenere dei riconoscimenti e di avere valore. Anche lì, mi sono sentita inconsistente sino al liceo, perché cambiare città dopo pochi anni o addirittura una manciata di mesi, significa non essere visibile a nessuno. Educatori compresi. Basti pensare che, all’esame di terza media (ed ero in quella città da pochissimi mesi), gli insegnanti mi dissero che potevo al massimo ambire ad una scuola professionale, perché dotata di scarsa intelligenza. La verità è che arrivavo da Bolzano e lì eravamo molto indietro con il programma. Vivevamo nella stanza minuscola di un residence, in attesa di trasferirci nella nostra prima casa di Milano e, per portarmi avanti, studiavo persino la notte, con una torcia sotto al letto, per non dare fastidio a chi dormiva nella mia stanza. Al liceo, come dicevo, le cose sono invece cambiate, perché mio padre aveva deciso che noi non ci saremmo più trasferite con lui. Inoltre, i professori avevano occhi e orecchie grandi. Quindi mi sentivo apprezzata, studiavo tantissimo e andavo benissimo. Ed è stato sempre così. Anche all’università. Per me sono stati basilari la scuola e lo studio. Riuscivo e mi sentivo qualcuno. Dovevo dimostrare a tutti e a me stessa che quanto sostenuto dai professori delle medie non corrispondeva al vero.E, poi, è stato fondamentale avvicinarmi alla lettura. I libri li ho scoperti al liceo, perché i miei genitori non leggevano mai. Al liceo ho cominciato a leggere molto perché obbligata e lì ho capito che quello era il mio mondo.
-Tu ti senti adesso nei loro confronti sciolta?
Io mi sento io. Ho smesso di avere rapporti di dipendenza nei confronti loro e di chiunque. Non cerco più un riconoscimento, perché sono io a riconoscermi. Non ho più bisogno che l’Altro mi faccia da specchio per dirmi se funziono, se vado bene, ecc. Il termometro è mio ed è interiore adesso. Non è più delegato agli altri. E questo disinnesca un sacco di meccanismi. Quindi anche il fatto di sentirmi rabbiosa per tutto quanto è avvenuto in passato. Ho perdonato tutti. E ho perdonato me. Anche per questa ragione non ha senso che io racconti molte cose. Farebbero del male alle altre persone e basta. E io non voglio che ciò accada. Il perdono autentico è un atto fondamentale e liberatorio. Richiede un enorme lavoro su di sé.E non mi sento più delusa se non arriva una risposta, un sorriso o un abbraccio. Ho imparato a parlarmi, a sorridermi e ad abbracciarmi.
-Quali sono le cose che più ti hanno aiutato, che più ti hanno dato forza nei tuoi anni giovanili?
Film e libri, soprattutto libri.
-Parlami di un film che per te ha contato tantissimo.
Più che un film era una serie televisiva: “La casa nella prateria”. Quella serie è stata per me consolatoria. Ciò che vi rintracciavo erano i miei valori. Valori autentici, che mi corrispondevano alla perfezione. Corrispondevano al mio sentire interiore, intendo.In quella storia io trovavo la traduzione perfetta di un esistere che nel mondo reale non scorgevo. Come i rapporti umani. Come gli amici veri. Come il comportamento delle persone che ti circondano e ti amano anche quando sbagli. Che ti perdonano, ti abbracciano e sanno dirti che, qualsiasi cosa capiti, loro ci saranno sempre.Io, grazie a “La casa nella prateria”, ho messo a fuoco il mio mondo interiore. Il modo in cui, nel mio mondo interiore, pensavo dovessero essere i codici che all’esterno non rintracciavo. Ricordo che mi anestetizzavo completamente guardando quella serie. Mi sentivo in pace, ero totalmente immersa in ciò che vedevo e sentivo. Era la mia oasi felice e a volte, prima di addormentarmi, immaginavo di essere Laura e di vivere la sua stessa situazione emotiva. Era consolatorio per me. Nutriente.
-Vuoi dirmi alcuni film che ti sono rimasti impressi?
“L’attimo fuggente”, per il senso di amicizia e la capacità di osservare le cose da punti di vista differenti. Ultimamente “Quasi Amici”, perché parla dell’affidamento e dell’intimità. Ho visto “Storia Di Pi”, che adoro sia per la fotografia sia perché parla di un mondo immaginario finalizzato a sopperire a tutto il dolore che quello reale innesca. Ma il mio film preferito in assoluto è stato “Il favoloso mondo di Amélie”. Bellissimo. La traduzione perfetta e fedele del mio mondo interiore, di come immagino le cose. Mi ricordo che, quando ho visto quel film la prima volta, ho pensato: “Ma allora non sono anormale! Si può osservare anche così la vita!”. L’esistenza come continua magia. Ricordo che da piccola, quando vedevo ad esempio un paio di jeans stesi al sole, immaginavo le loro ginocchia che bruciavano per il troppo calore. E lo sentivo. Ma non potevo parlarne con nessuno. Mi accorgevo che tutto attorno era diverso da me e che difficilmente avrebbero capito. Mi costringevo al silenzio. Amélie mi ha restituito il mio particolarissimo senso di magica normalità. E forse è per questo che di mestiere faccio la creativa.
-I libri quando li hai incontrati?
Al liceo. Lì ho cominciato ad aprirli e a scoprire che, dentro ad essi, potevo vivere in modo diverso. E anche conoscere e capire. Trovare un dialogo profondo con l’Altro e con quella parte di me che oggi potrei a tutti gli effetti definire “affamata”. Classici come “Il diario di Anna Frank” o “Tre uomini in barca”. Ricordo che iniziavo a leggere e non mi staccavo più.Il mio libro preferito in assoluto, però, è “Il Piccolo Principe”. So che è banale dirlo, ma è così. Per me più adulta, “Il Piccolo Principe” è stato il corrispettivo di “La casa nella prateria” da bambina. Me l’ha fatto scoprire un professore dell’università, durante un corso di fotografia. Lui mi vedeva. Per certi versi, mi rendo conto che la mia vita è stata costellata anche da persone che hanno saputo osservarmi e toccare le mie ferite senza dover chiedere nulla. Scatta spontaneamente qualcosa che non cerchi. Comprensioni che chi ti sta accanto tutto il giorno magari non sfiora mai.I film e i libri erano le mie tane. Era come trovare aree di ristoro e sosta all’interno delle quali riuscivo a coccolarmi. Quando ero piccola, mi hanno regalato una copertina con i bordi di raso. Ricordo che mi massaggiavo le dita su quel bordo e tutte le brutture sparivano. Mi faceva sentire protetta, al sicuro. Ancora oggi ho quella copertina e, quando viaggio e sto via per periodi lunghi, mi segue. Per me rappresenta il dormire al sicuro. Anche nei periodi più difficili della mia vita non ho mai avuto bisogno di sonniferi, perché mi basta infilare le dita dei piedi in fondo al letto in quella copertina e io viaggio. Spengo la testa e approdo altrove. Tutto il dolore e le ansie svaniscono. Nel corso della mia vita mi sono trovata, senza saperlo, tutta una serie di elementi simbolici che erano per me consolatori e nutrienti. Potevano essere la copertina, un pupazzo, il tappeto imbottito cucito da mia nonna, un certo tipo di colore, un libro, un film. Il mio mondo magico. I miei totem. Il mio universo affettivo. E credo che questo modo di trovare consolazione abbia radici molto antiche, perché anche mia nonna Maria era piena zeppa di elementi simbolici e giochi emotivi con cui amava coccolarsi. Cose semplici, ma autentiche.Da lei ho preso anche il mio particolare “sentire”. Mia nonna era molto devota, ma aveva una religiosità tutta sua. Ricordo che alle 18 in punto partiva col rosario, ma mai una volta le ho sentito fare discorsi bigotti. E il suo “sentire” – che è poi anche il mio – spesso sconfinava in qualcosa che non era affatto concreto. Visioni, premonizioni, aperture ad una spiritualità viva e accesa.
-Com’erano le relazioni umane ai tempi del liceo?
Difficilissime, perché non sapevo come fare amicizia con le persone. E, in più, vivevo con questa incessante sensazione di doverle lasciare dall’oggi al domani, dovuta ai continui trasferimenti d’infanzia. Da un lato desideravo investire per costruirmi legami autentici, dall’altro non sapevo come fare e, in più, dentro di me c’era quella voce piccola piccola che mi bisbigliava: “Tanto dovrai lasciarle e le perderai di nuovo. Non investire, non soffrire ancora. Non mostrarti, non sei degna dell’amore di nessuno”. Io ho cambiato sei città diverse, dai 5 ai 13 anni. È stato un continuo perdere relazioni e possibilità d’amore. Quindi non sapevo come fare. E tante persone mi vedevano fredda, distaccata, sulle mie. Mi sentivo così fragile e immeritevole della loro approvazione, che tenere una certa distanza di sicurezza era la sola cosa che potessi fare.Al liceo si tende a fare gruppo e a crearsi il proprio cerchio di amicizie. Ed io, se da un lato avevo fame di famiglia allargata, dall’altro non sapevo proprio da dove partire per crearla. Rimanevo sempre un po’ tagliata fuori e tante cose incidevano in questi meccanismi. Quando ripenso alla mia infanzia, mi accorgo d’essere diventata adulta molto presto. Quindi, molte cose che potevano essere di interesse per le mie compagne, per me non lo erano già più. E, poi, c’era il disagio del corpo. Mi sono sviluppata alla fine della quarta elementare e per me è stato tutto molto traumatico. Mi sentivo bambina prigioniera in un corpo femminile. Eccessivamente ingombrante, eccessivamente visibile. Attiravo interessi che detestavo, che non volevo. Inoltre, il fatto di cambiare continuamente città implicava il doversi confrontare sempre con usi e consumi diversi. Ed io, ogni volta che mi trasferivo, non ero allineata con l’abbigliamento delle mie compagne. Quando sono approdata a Milano e andavano di moda i Paninari, non essere vestita come loro significava essere “out”. Io sono stata “out” in ogni trasloco, sia perché non avevo amicizie solide su cui contare, sia perché a livello di abbigliamento non ero mai adeguata. Mi sentivo sempre la nota stonata.
-Quindi il senso di solitudine è continuato anche negli anni del liceo?
Questo senso di solitudine e non appartenenza c’è sempre stato. Mi sono sempre sentita una marziana. Nonostante questo, al liceo ho evitato agganci facili con persone che facevano uso di sostanze stupefacenti. Le compagnie sbagliate ho sempre avuto l’istinto di evitarle. Essere accettati da loro era semplice, perché sarebbe stato sufficiente acconsentire di stordirsi. Però sentivo che quella non era la mia strada e, quindi, ne stavo spontaneamente alla larga.
-E poi andasti all’università.
Sì … Il primo anno l’ho perso perché non esisteva ancora la facoltà che mi interessava. Ho provato ad iscrivermi a Scienze delle Comunicazioni a Torino, ma non mi piaceva. Imperava un’atmosfera caotica. 4000 persone a seguire lezione in un cinema. I docenti troppo distanti. Pochi rapporti umani.In più, quell’anno è morto mio nonno – il padre di mia madre – e mia nonna Angela stava malissimo, perché con lui aveva creato un rapporto di pura simbiosi. I miei genitori, per far sì che avesse compagnia, mi avevano spinta ad andare a vivere da lei. A Torino, dove vive tutta la mia famiglia. Ho accettato per la serenità di mia madre, ma ho vissuto mesi difficilissimi in quella casa. Mia nonna (che poi si è ammalata di Cancro all’intestino probabilmente proprio a causa della morte di mio nonno), soffriva terribilmente. Quando è mancato, lei non è più riuscita a trovare una giustificazione per andare avanti. Ricordo che teneva sempre le tapparelle abbassate ed io non potevo toccare nulla, perché tutto le ricordava mio nonno. Se uscivo per andare all’università le dava fastidio perché non voleva rimanere a casa da sola, ma se tornavo e stavo con lei, le dava fastidio che ci fossi. Dovevo fare continuamente attenzione a cosa toccavo, a dove mi sedevo. A tutto.Quindi, forse perché mi sentivo soffocare e mi trovavo imprigionata in una situazione impossibile da sostenere psicologicamente a soli 18 anni, mi è venuta una polmonite. A quel punto i miei genitori mi hanno riportata a Milano per farmi curare, scoprendo un’anemia fortissima. So che è stata una malattia psicosomatica, perché non volevo più rimanere lì e non sapevo come dirlo. Mi sentivo terribilmente in colpa nel lasciare mia nonna da sola e, quando è morta, ho fatto una fatica enorme ad elaborare tutti i miei sensi di colpa nei suoi confronti.Quando sono rientrata a Milano, pian piano, mi sono ripresa. Ho perso un anno, ma senza restare a casa a far nulla. Anzi, per essere autonoma ho cominciato a lavorare a più non posso. Ho fatto volantinaggio, ad esempio. Ricordo che ci portavano nei paesini, stipati nei furgoni come bestie. Ho fatto la promotrice nei supermercati, a volte stando più di dodici ore di fila in piedi. Però qualsiasi lavoro andava bene, perché mi aiutava a sentire che la vita andava avanti e che potevo permettermi un cinema, un libro o un gelato senza chiedere niente a nessuno.L’anno successivo hanno aperto a Milano una facoltà che mi interessava: Industrial Design. Mi piaceva moltissimo, perché ho sempre desiderato lavorare nella comunicazione. Mi sono iscritta al test di ingresso, convinta di non passare. Erano disponibili 500 posti su oltre 4.000 candidati. Figuriamoci… Invece, quando sono andata a vedere gli esiti sui tabelloni, ho scoperto che ero arrivata ventunesima. Con mia immensa meraviglia.Per certi aspetti l’università l’ho vissuta come il liceo. Grandi difficoltà nei rapporti umani e studio intensissimo. Finché, ad un certo punto, mi sono trovata ad affrontare Fisica Tecnica, che per me era come studiare arabo. Si è così sviluppata in me la convinzione che non sarei mai riuscita a laurearmi per via di quella materia, con mia madre che continuava a ripetermi che invece dovevo sbrigarmi perché mio padre desiderava andare in pensione.Avevo frequentato i primi tre anni di università e, sino a quel momento, tutto era andato alla grande. Sempre trenta o trenta e lode. Sempre borse di studio per merito. Adesso, invece, mi trovavo ad affrontare una materia di cui non riuscivo a capire assolutamente nulla. Mi sembrava che, tra me e la laurea, tra me e la mia volontà di diventare finalmente autonoma al cento per cento, si fosse frapposto un ostacolo insormontabile. Sono così entrata in crisi, anche a causa delle continue pressioni. E, una mattina, mi sono svegliata con una piaghetta strana e violacea sul sopracciglio.
-Quanti anni avevi?
23 anni. Mi sono svegliata con questa piaghetta sul sopracciglio destro che sembrava quasi un’ustione. Pensavo fosse una semplice allergia, invece ha cominciato ad estendersi e a ricoprirmi l’intero volto. Ricordo che tutti i dermatologi mi ripetevano che non avevano minimamente idea di cosa avessi.Ho cominciato ad ascoltarmi, accorgendomi che mi si creava nella pancia un fuoco che saliva. Un fuoco violentissimo, che poi esplodeva in volto. E io mi riempivo letteralmente di piaghe. Piaghe che si aprivano e gettavano sangue e siero. Alcuni medici l’hanno definita “dermatite atopica”, ma so che era soltanto il loro modo di attribuire un’etichetta ad una manifestazione senza nome e senza apparenti ragioni. Queste piaghe, comunque, si formavano soltanto sul collo e sul viso. Avevo più o meno una gettata ogni due o tre giorni, quindi non facevo in tempo a prendere fiato che subito se ne formavano altre. Erano stratificate ed io ero diventata un mostro. All’università molte persone con cui pensavo di aver stretto amicizia hanno smesso di salutarmi. Intorno a me si era ricreato il vuoto. Lo stesso vuoto che mi ha accompagnata per una vita. Ricordo che addirittura alcuni docenti pretendevano documentazioni mediche per potermi consentire di sostenere gli esami orali. Avevano paura del contagio.A volte, durante la lezione, sentivo arrivare l’ondata. Allora mi precipitavo in un bagno, mi chiudevo dentro e mi sedevo a terra. Poi sgattaiolavo fuori come una ladra, correvo alla macchina e tornavo a casa, con i finestrini completamente abbassati per riuscire a spegnere quel fuoco che mi macerava la carne.I miei genitori continuavano a portarmi da dottori, dermatologi, omeopati, naturopati, dietologi e tutti ripetevano che non c’era speranza, che non sapevano come aiutarmi, che dovevo tenermela per tutta la vita, che non c’erano soluzioni. Ho assunto cortisonici, immunosoppressori e ogni sorta di rimedio omeopatico. Ho provavo diete in cui mi toglievano di tutto, ma questo problema non passava. Ricordo che, dopo anni di dieta, ad un certo punto sono crollata. Una febbre violentissima mi ha colpita, costringendomi a letto per giorni. Non riuscivo neppure ad alzarmi per andare a fare la pipì. Avevo gli esami del sangue completamente sballati e, così, mi è stato concesso di reintegrare pian piano qualcosa.Sono andata avanti così sino a quando ho avuto 27 o 28 anni. C’erano notti in cui mi svegliavo con la pelle del viso attaccata al cuscino. Mi ricordo di una volta in cui mia madre mi ha portata al pronto soccorso, perché ero talmente stratificata nelle mie piaghe da non riuscire neppure ad aprire gli occhi. Avevo anche le narici incollate e la bocca quasi chiusa per il troppo dolore ai margini delle labbra.In quell’occasione, dopo ore di attesa, i medici mi hanno fatta entrare in una stanza accanto ad una signora anziana sdraiata su un lettino che dopo poco è morta, proprio mentre ero lì. E ricordo che ho pianto per lei e che le mie lacrime bruciavano troppo sulle piaghe aperte. Quella scena non la dimenticherò mai. Sono stata la prima a salutarla, mentre i dottori se ne disinteressavano. E ho detto a me stessa che, nonostante la situazione che stavo affrontando, dovevo vivere al meglio tutto ciò che potevo.
-Sono impressionato da quello che hai vissuto in quegli anni. Avere qualcosa del genere al volto, per tanto tempo, è devastante. L’ostacolo del tuo esame fu un detonatore.. per tutto quello che ti si è accumulato dentro..
Ti giuro, io mi chiedevo sempre: “Perché proprio a me? Quale è il senso? Cosa devo imparare da questa esperienza?”. E il senso già allora sono riuscita a trovarlo dentro di me, perché ho imparato cosa significhi essere diversi. Prima non lo sapevo. Non profondamente, intendo.Entravo nei negozi e i commessi mi chiedevano di uscire. Non potevo neppure prendere un caffè al bar, perché tutti avevano paura del contagio. Andavo in giro con un foglio sul quale un dermatologo dichiarava che non ero infettiva, ma comunque risultavo “scomoda” allo sguardo altrui. E tutto questo era tremendamente imbarazzante per me. E, allora, ho ridotto la mia vita sociale all’osso e mi sono ancor più accanita sullo studio. Sostenevo sei esami in una sola sessione, con esiti altissimi. In molti pensavano che fosse semplicemente dovuto alla pena che i docenti provavano per me. Ma io mi ripetevo continuamente: “Puoi scegliere. O ti arrendi, ti chiudi in casa e butti nel cesso questi anni, oppure ti dedichi anima e corpo allo studio per laurearti il prima possibile”. E ho scelto la seconda strada. Subito.E poi mi ripetevo: “Questa cosa ti sta succedendo per una ragione ben precisa. Devi solo metterla a fuoco e farla tua”. E più me lo chiedevo, più capivo che stavo entrando in contatto col concetto autentico di “diversità”. E questo è stato un insegnamento preziosissimo per me. Per me, da allora, chiunque è uguale a me. So cosa si provi a vivere con un handicap. So “sentire” e comprendere pienamente chi viene emarginato o rifiutato pubblicamente.Poi ho iniziato un percorso di psicoterapia transazionale, perché niente funzionava e i miei genitori pensavano che forse quella poteva essere una strada…
-Qualcuno ti direbbe che il senso forse è anche altro, oltre naturalmente a quello che hai detto. Che tutto questo (anche quello che ti accadrà dopo) è servito per renderti davvero capace di comprendere gli altri ed aiutarli. Che chi ha affrontato l’inferno in terra.
Guarda, posso dirti che tutto ciò che ho vissuto in vita mia mi ha reso molto sensibile. Sensibile al punto tale che, a volte, quando mi passa accanto un estraneo ho immediatamente la percezione dell’universo che gli abita dentro.E lo stesso discorso vale anche per le persone che aiuto, che sento per telefono o che semplicemente mi scrivono sulla chat di Facebook. Io “sento” oltre ciò che mi dicono. Sempre. Rilevo sfumature che poi evidenzio, che accenno, che le aiuta spontaneamente.Sin da bambina ho questo “dono”, ma sino a poco tempo fa non mi sono data credito. La mente può ingannarti, offrendoti le migliori risposte razionali. Invece no. Mi sono successe cose, anche con persone a me del tutto estranee, che sono prove tangibili della mia capacità di entrare in contatto con il dentro e con l’oltre. Oltre la materia che ci circonda, intendo.Oggi, soprattutto dopo il cancro, ho accolto anche questa parte di me e l’ho integrata nella mia personalità. Finalmente mi sento intera, completa, in profondo equilibrio. Non più strana o anormale. Non ho più paura. Questo è il punto.
-Cosa accadde poi con quell’esame?
Ricordo che ero andata da quella professoressa di fisica e avevo la dermatite. Era la terza volta che tentavo di superare il suo esame. Mi sono spogliata del mio orgoglio e le ho detto: “Io della sua materia non capisco nulla. È arabo per me. Però guardi il mio libretto. Ho praticamente tutti 30 e 30 e lode. Io per la sua materia studio giorno e notte da mesi, ma non sono tagliata per formule e tecnicismi. Mi metta un 18, per favore. Per me sarà come aver preso un 30 e lode”. Lei mi ha guardata e mi ha detto: “Sì, te lo meriti”. Ero felicissima d’essere riuscita ad ottenerlo, anche se sapevo di non meritarlo.Poi ho iniziato un percorso di psicoterapia con Dianora Casalegno, che poi ho ritrovato al mio Master di Counseling. Mi faceva parlare molto, ma mi stimolava anche con percorsi di immaginazione attiva. Andavo da lei due volte alla settimana e la amavo tantissimo. Era una persona accogliente, disponibile, sorridente. A volte la osservavo e, attraverso i suoi sguardi, capivo me stessa. Le sue espressioni del viso erano inequivocabili. Mi vedeva oltre ciò che sapevo raccontare. E lo sentivo. E mi ristorava.Ad un certo punto mi ha posto una domanda decisiva: “Tu dove sei? Simona dov’è in tutto ciò che fa e nella sua quotidianità?”… come a dirmi … “Tutto ciò che fai, lo fai per non gravare su nessuno o per ottenere un riconoscimento d’amore”. Ed effettivamente era così. E ho messo a fuoco – per la prima volta – che effettivamente certe cose non erano normali e, così, a queste cose ho cominciato a oppormi pesantemente, anche se il carattere ribelle non mi è mai mancato, perché dentro di me viveva una rabbia feroce. Davvero feroce.Questa psicoterapeuta mi ha insegnato una tecnica per cui, quando sentivo salire il fuoco dallo stomaco, mi sdraiavo e lo visualizzavo come un ammasso verde e gelatinoso. Immaginavo di prenderlo dallo stomaco e di metterlo su una mensola per lasciarlo fuori da me. E, pian piano, con questo esercizio la dermatite si manifestava sempre meno.
-L’utilizzo di alcune tecniche di “visualizzazione” può essere davvero molto utile..
Sì… e comunque con lei stavo cominciando a cambiare profondamente. Ma, ad un certo punto, i miei genitori hanno deciso che non potevano più pagarmi le sedute e, allora, mi sono cercata un lavoro per guadagnare e poterci andare di nuovo. Anche se avevo il volto ancora sufficientemente devastato dalle piaghe.Al McDonald’s ho lavorato per due mesi. Mi trovavo bene e loro erano contentissimi di me. Il problema, però, era il fritto delle patatine, che nuoceva gravemente alla mia pelle. Quindi mi sono dovuta licenziare. Considera che la mia epidermide era così delicata che anche solo guardando una cosa mi si attivavano reazioni cutanee. Ad esempio, con l’olio d’oliva. Osservavo le cose oleose e immediatamente mi sentivo scottare la pelle. Avevo acquisito una percezione immensa degli alimenti che potevo o non potevo ingerire. Secondo me era un po’ come avveniva con i nostri antenati; sapevano intuire le piante che facevano bene o male al loro organismo. Una sensibilità acuta. Ricordo che annusavo le creme e, dal loro odore, capivo se la pelle avrebbe reagito con un’infiammazione. Era una cosa pazzesca. Difficilissima da spiegare.Comunque ho fatto poi tutta una serie di lavori. La lavapiatti, la cameriera nei bar, nei ristoranti, nei pub e in una gelateria vicina a casa. Frequentavo l’università, studiavo e lavoravo ovunque mi chiamassero e, con quei soldi, mi mantenevo gli sfizi e mi compravo i libri di psicoterapia. Perché la psicoterapeuta non me la potevo permettere, ma i libri usati sì. E, così, sono andata avanti a studiare per i fatti miei. Freud, Jung, Herman Hesse… Ho spaziato tanto.Al liceo sono uscita con una tesina di arte e psicoterapia. Anche la mia tesi di laurea aveva quel tipo di impronta. Quindi tutte quelle letture mi risuonavano dentro. Poi, dopo essermi laureata, mi sono iscritta ad un Master di Psicoterapia Junghiana e oggi ne sto frequentando uno di Counseling Transazionale. Ecco, forse questo genere di approccio alla vita è nel mio dna. Forse.
Comunque, la dermatite era ormai quasi scomparsa. Nel frattempo mi sono laureata a pieni voti, ho cominciato a lavorare per molte agenzie in qualità di freelance, ho avviato una terapia junghiana, ho fondato la mia piccola agenzia di comunicazione e mi sono trasferita in una casa tutta mia, dove sono andata a convivere per circa tre anni con F – il ragazzo di cui parlavo prima. Una relazione davvero assurda, a ben pensarci.Dopo la fine di quella relazione ho conosciuto mio il mio attuale marito (A), in modo davvero incredibile. Eravamo sulla circonvallazione – io in ritardo per un verso, lui per un altro. Non dovevamo trovarci lì, insomma. Lui mi ha tagliato la strada in moto ed io l’ho messo sotto, rovinando il parafanghi della mia auto nuova di zecca. Abbiamo fatto la constatazione amichevole, cominciato a sentirci per risolvere la questione e, dopo un po’ di mesi, a frequentarci. È stata una storia difficile e molto problematica. Io, però, desideravo crearmi un nido soffice e confortevole, quindi ho concentrato davvero tutte le mie energie su quello: lavoro e famiglia. Non reputo opportuno raccontare ciò che è accaduto fra noi, perché coinvolgerei ingiustamente anche lui. Desidero solo dire che, in quanto a problemi di coppia, purtroppo non ci siamo fatti mancare davvero nulla. Io, però, non mi sono mai arresa, perché ho sempre pensato che le cose potessero cambiare… soprattutto dopo la nascita di Alice, che è stata la gioia più grande della mia vita. Attesa in completa solitudine, con una tristezza nel cuore infinita, ma esserino magico che ha reso infinitamente più complesse e preziose tutte le mie giornate.I suoi primi mesi di vita sono stati davvero tosti, perché nessuno era sintonizzato sulle nostre frequenze. Col senno di poi, posso dire che neonato e mamma devono essere lasciati in pace i primi tempi perché, se chi interviene crea disagi e disturbi continui, può compromettere gravemente la loro serenità. Così è stato. All’intromissione di queste persone che sostenevano di volermi aiutare e, invece, trascorrevano le loro giornate a criticarmi continuamente, Alice ha cominciato a volersi attaccare al seno ogni 15 minuti e ha completamente smesso di dormire. Si svegliava anche 15 volte per notte, in pianti che non avevano spiegazione alcuna. E, così, la situazione è andata avanti sino a quando ha compiuto i due anni d’età.Quando lei aveva circa due anni, anche se utilizzavo il cerotto anticoncezionale, ho scoperto di essere rimasta nuovamente incinta. Ma non eravamo coppia. Inoltre lavoravo come un mulo per tutti. Giorno e notte. A è sempre stato un padre fantastico ma, per il resto, completamente assente. E di certo non per colpa sua o per sua volontà.Pensavo a quella nuova gravidanza come a qualcosa di giusto che capitava nel momento più sbagliato possibile, perché di fatto la nostra relazione era davvero agli sgoccioli. E, se già mi sentivo in colpa nei confronti di Alice e avevo per lei pochissimo tempo perché dovevo lavorare… come avrei potuto crescerne da sola un altro? Ero convinta di non farcela e potevo decidere soltanto da sola. Non capivo tante cose. E, nel momento stesso in cui sono tornata a casa dall’ospedale dopo aver abortito, ho messo a fuoco di aver compiuto il più grosso errore della mia vita. Lì mi sono accorta che avrei potuto portare avanti qualsiasi cosa, ma che era ormai troppo tardi. E ho vissuto un dolore talmente devastante che tutto il resto mi sembrava insignificante. Mi facevo schifo e desideravo che tutti lo sapessero e mi punissero per quanto compiuto. Parlavo alle persone e dicevo: “Faccio schifo. Come ho potuto uccidere il mio bambino? Merito il peggio, da tutti voi”. Non riuscivo a raccontarmi niente di consolatorio, né a mascherarmi. Sono sempre andata in giro con tutti i nervi scoperti, io. Ho trascorso mesi e mesi raggomitolata nel letto a piangere. Di giorno l’efficienza del lavoro e con Alice, che non riuscivo neppure a guardare in viso per i sensi di colpa. Avevo ucciso il suo fratellino e lui, a causa mia, non avrebbe mai saputo cosa significasse nuotare nel mare, osservare il sole o semplicemente assaggiare un gelato. Ancora oggi, se ci penso, mi salgono le lacrime agli occhi.Il rapporto con il mio compagno è continuato, anche se non so dire come. Davvero. Se torno con la mente ai mille avvenimenti accaduti e ai mille traumi e dolori, mi chiedo come io abbia fatto ad accettare di restare in quella situazione. Una situazione sbagliata per entrambi, che sia chiaro.
Come dicevo all’inizio, l’infanzia ti segna a tal punto da obbligarti a restare dentro a situazioni terribilmente sbagliate, da cui non riesci ad uscire. Ti paralizzano, come sabbie mobili. Poi mi ha chiesto di sposarlo e io ho accettato. Forse mi sono illusa che, diventando sua moglie, la situazione potesse improvvisamente cambiare per entrambi, oppure ho semplicemente imparato a tenere il cuore in un freezer. Mi aspettavo il peggio e il peggio puntualmente arrivava. Sempre. Nel 2009 sono rimasta di nuovo incinta. Questa volta ero pronta. La gravidanza di Alice era stata meravigliosa perché, a parte il fatto che lavoravo giorno e notte e vivevo con continue contrazioni, non avevo altri disturbi. In questa, invece, la nausea era feroce e continua.Tutto sembrava filare liscio quando, verso il quarto mese di gravidanza, sono andata a fare la morfologica in un centro privato che mi avrebbe consentito di far vedere ad Alice il suo fratellino in 3D. Era un momento di festa. Bellissimo. Lei era euforica e non vedeva l’ora che lui uscisse dalla mia pancia per poterlo conoscere.Mentre ero lì, però, ad un certo punto il medico ha guardato mio marito e gli ha detto: “Per favore, esca dalla stanza con la bambina. Dobbiamo dire una cosa a sua moglie”. Ed io, mentre loro si allontanavano, mi sono sentita con tutto il peso del cielo che mi schiacciava contro il lettino. Mi sono sentita precipitare nel vuoto e infrangermi in mille pezzi.Mi hanno detto che il bambino aveva una labiapalatoschisi enorme. Labiapalatoschisi significa non solo avere il labbro leporino, ma anche assenza della struttura ossea che forma il palato. Quindi mi hanno consigliato di rivolgermi a vari ospedali per capire la situazione specifica di Tommaso… perché così si sarebbe dovuto chiamare. Ricordo che quella sera siamo tornati a casa e ho pianto tutte le mie lacrime. Ricordo che ho chiamato mia madre, dicendole che era tutta colpa mia, che era la giusta punizione per aver abortito anni prima, ma che Dio avrebbe dovuto punire me e non Tommaso. Che ero io a meritare di morire, soffrire, essere additata da tutti come l’essere più spregevole del mondo.Ho poi chiamato la mia ginecologa privava, mandandole tutte le ecografie. Lei, dopo averle viste in urgenza via email, mi ha detto: “Simona, hai ancora qualche settimana di tempo. Fammi sapere cosa deciderai di fare. Posso aiutarti io”. Parlava di aborto chiaramente, ma io non riuscivo ad accettarlo e, quindi, non lo prendevo minimamente in considerazione. Era un vocabolo che proprio mi mancava dentro, allora.Da quella sera sono cominciate tre settimane di vero calvario. Non dormivo mai. Mai. Ero sempre incollata ad Internet per fare ricerca. Speravo di poter trovare qualcosa di miracoloso per poterlo curare mentre era ancora dentro di me. Una ricerca solo mia, perché chiunque mi circondasse viveva l’argomento come inopportuno, scottante, inaffrontabile.Ho trovato un’associazione di genitori con bimbi con problematiche simili a quella di Tommaso e ho conosciuto Lucio. Un uomo fantastico. Un angelo che si attiva per aiutare genitori con bimbi con queste patologie e che, ancora oggi, sento di tanto in tanto e mi abita nel cuore. Una persona preziosa, che non mi ha mai giudicata. Mai. Il suo abbraccio arrivava a me come nessun altro ha saputo abbracciarmi.Ho cominciato a viaggiare per capire chi potesse operarlo e sono entrata nel merito delle varie procedure. Ho scoperto che non avrei potuto allattarlo, che si sarebbe dovuto nutrire con una sondina e che avrebbe dovuto sostenere molte operazioni nell’arco del primo anno di vita. E anche questa era una situazione problematica, perché le anestesie per un neonato possono portare a seri ritardi mentali.Siamo stati seguiti da un ospedale di Milano specializzato. All’inizio hanno mitigato la gravità del problema, per allontanare da me l’idea dell’aborto terapeutico. Ho poi scoperto che lì i primari che autorizzano troppi aborti terapeutici perdono il posto e che, chi aveva preso in carico me, quasi sicuramente aveva già esaurito tutti i suoi “bonus”, dato che eravamo a novembre.Io, però, vivevo simultaneamente due sensazioni distinte: nella prima speravo di potermi svegliare da un incubo devastante, nell’altra ero certa che la situazione fosse di una gravità assoluta. E mi ricordo queste infinite visite mediche, dove lo giravano e rigiravano dall’esterno con le mani per poterlo misurare in modo sempre più preciso. E del mio dolore, fatto di sangue e anima.E ricordo tutti quei ritorni a casa in cui, in auto, io e A ci confrontavamo. Io avevo intuito qualcosa e lui tutt’altro, in un caos infinito e in un incubo che a me pareva solo peggiorare di giorno in giorno.Nel corso di un incontro con la genetista dell’ospedale, parlando dell’ipotesi dell’aborto terapeutico, mi sono sentita dire: “Signora, quando noi riceviamo adulti con la labiopalatoschisi sono felici di essere vivi!”. Io tentavo di spiegarle che l’anno successivo Alice sarebbe dovuta andare a scuola, che questo bambino l’avrei dovuto nutrire con una sondina e portare in Toscana ad operarsi parecchie volte, che saremmo dovuti stare via mesi, che i miei genitori e i miei suoceri vivono lontani, che io col mio lavoro mantenevo tutti e che Alice già c’era e meritava di essere salvaguardata dalle nostre infinite assenze. I medici continuavano a negare la gravità del problema ma, a tempi scaduti per l’aborto terapeutico in Italia, ci hanno finalmente rivelato che era facile che il bambino avesse anche ulteriori problemi ad altri organi. Ho anche scoperto che gli mancava la struttura ossea del naso, probabilmente un occhio e certamente i denti. Quindi, alla fine, in una situazione in cui l’argomento era ormai tabù con chiunque mi circondasse, ho raccolto le poche forze che mi erano rimaste e ho deciso per tutti. Ho deciso di abortire. Ho detto a mio marito: “Cerchiamo all’estero e andiamoci”. Nell’arco di una notte lui ha trovato una clinica privata a Londra, abbiamo atteso l’arrivo di mia madre e siamo partiti. In questa clinica, però, gli aborti erano prevalentemente svolti ai primi mesi di gravidanza e la macchina ecografica molto datata. Dunque la misurazione del femore risultava errata. Ci hanno quindi spediti d’urgenza in un ospedale, dove un’equipe mi ha fatto un’ecografia con una macchina ultra-moderna, dotata di uno schermo enorme. Ci hanno confermato la datazione italiana e anche la gravità della situazione, ma io guardavo solo il mio cucciolo nel mega-screen e mi dicevo: “Tutto questo non ha senso. Io sono qui per ucciderti, mentre invece dovrei trovarmi in questa struttura modernissima per riuscire salvarti. Dio, perché tutto questo?”. Quando mi sono alzata dal lettino, faticavo a reggermi in piedi. Stavo morendo dentro. Stavo appassendo. Ci hanno prospettato l’idea di procurarmi un parto anticipato in ospedale e di tornare in Italia con Tommaso, ma io non potevo neppure pensarci. Non potevo. Non potevo proprio. Quindi siamo tornati nella clinica privata con tutte le carte in regola e, il giorno successivo, mi hanno addormentata. Con un’iniezione nel cuore, l’hanno fatto addormentare per sempre. Per sempre.Sono rimasta con lui dentro – morto – per un’intera giornata. Ricordo la notte, quando mi toccavo la pancia e speravo di sentirlo muovere. E non avevo neppure più la forza di piangere. Ero precipitata nel vuoto, nel nero. Annaspavo. Non sapevo più a cosa aggrapparmi.Il giorno successivo mi hanno fatto un’ulteriore anestesia totale e lo hanno tolto da me. Aspirandolo. Ricordo che mi addormentavo e mi svegliavo con queste infermiere di colore dagli occhi buoni e lucidi, che mi tenevano per mano e mi dicevano che era andato tutto bene e dovevo stare tranquilla. Senza quelle donne io sarei impazzita. Sono state le mie mamme. Capivano il mio strazio e, con poco, riuscivano a tenermi ancorata alla terra.A poche ore dall’aborto, abbiamo preso l’aereo e siamo tornati in Italia. Io sembravo ancora incinta e mi ricordo di una signora che, seduta accanto a me, mi ha toccato la pancia dicendomi: “Ah che bello! Un bambino nuovo!”. Io ho cacciato indietro le lacrime e le ho risposto “sì” con un sorriso. Poi mi sono voltata verso il finestrino e ho chiuso gli occhi. Lungo tutto il viaggio ho pensato: “Dio, ti prego, non far precipitare l’aereo. Devo tornare a casa da Alice. So che merito di morire, ma fammi tornare da lei sana e salva. Lei ha bisogno di me!”. E, quando l’aereo è atterrato e sono tornata a casa, sono corsa da mia figlia che stava dormendo e lei, sentendo la mia presenza nella stanza, si è svegliata, mi ha abbracciata e mi ha sussurrato: “Bentornata mammina, mi sei mancata tanto”. Alice aveva 5 anni. Sapeva che il fratellino aveva “un buco nella faccia”, ma lo aspettava con ansia. Mia madre è stata bravissima, perché in nostra assenza le ha raccontato che a volte i bambini decidono di non nascere e di tornare “semini”. Ne abbiamo parlato a lungo, io e Alice… e spesso, ancora oggi, mi chiede dove sia Tommaso e preghiamo per lui. Le manca moltissimo e il primo periodo è stata davvero dura, perché qualsiasi bimbo piccolo la rendeva triste di una tristezza muta. Io me ne accorgevo e tentavo di farla parlare, ma lei aveva bisogno di proteggere me da quel dolore. Io, invece, incontravo altre donne con la pancia e cercavo di stare ad una certa distanza. Avevo paura di contagiarle e di rovinare la loro felicità.
Il giorno successivo al mio ritorno a casa, la ginecologa mi ha fatto prendere alcune pastiglie per togliermi il latte, che sicuramente stava arrivando. Poi ho avviato una serie di controlli medici accurati: ecografie, visite, esami del sangue, ecc. Tutto perfetto. Avevo 38 anni e mi sono sentita persino rimproverare dalla radiologa per il mio controllo al seno. Ricordo che quest’ultima mi ha detto: “Signora, lei ha semplicemente un seno fibroso. Stia serena e vada a farsi una mammografia quando avrà compiuto i 40 anni. Se tutte facessero come lei, avremmo gli ospedali pieni!”. Mi sono innervosita parecchio. Parlano di prevenzione e poi, quando la fai, ti becchi rimproveri. Ma non avevo più forse per lottare su nulla. Mi sentivo appassita dentro.Dopo l’aborto terapeutico mi sono buttata completamente sul lavoro e su mia figlia, convinta di essere forte e di riuscire a lasciarmi tutto alle spalle. In ogni caso, sentivo che il problema doveva essere affrontato, così ho cominciato un percorso con una psicoterapeuta bravissima: Daniela Labate, che mi ha aiutata ad aprire gli occhi e a comprendere tantissimi nodi irrisolti della mia vita. Lei c’è ancora ed è davvero preziosissima per me. Non solo dal punto di vista professionale, intendo.Abbiamo cominciato ad andarci in coppia. Il trauma dell’aborto era stato fortissimo per entrambi. Mio marito non riusciva ad accettare quanto accaduto. Continuava ad immaginare Tommaso, a vederlo mentre camminava in salotto e a colpevolizzare me per quanto accaduto. Anche se inconsciamente. Mi sono ritrovata completamente sola. Nuovamente sola. Con un dolore grande da gestire, con Alice da consolare, la quotidianità da portare avanti e nessuno con cui poterne parlare. Nessuno. Qualsiasi accenno io facessi sull’argomento, con qualsiasi persona della mia famiglia, ciò che mi sentivo rispondere era: “Lascia perdere, ormai è andata. Non parliamone più”. Io e A abbiamo cominciato ad allontanarci sempre più. Anche in terapia, ognuno ha fatto il suo percorso e, ad un certo punto, ci siamo staccati definitivamente e lui è andato via di casa per ragioni che non intendo spiegare. L’abbandono è stato improvviso, dopo mesi e mesi di solitudine. Dopodiché ho cominciato a cercare di trovare un mio equilibrio, interrotto continuamente da cartoline, mail e telefonate anonime femminili piene di insulti e minacce a me e Alice. Ho tentato di ignorarle, anche se il senso di umiliazione era profondo. Sono semplicemente andata avanti. A testa bassa. E ho imparato a sentirmi famiglia anche da sola. Io e la mia cucciola che, devo dirlo, grazie al nostro modo di gestire la situazione è riuscita a vivere la separazione in modo sereno, godendo del tempo in cui poteva averci tutti per lei. Senza guerre, senza astio e col solo desiderio di vederla sorridere.Ad un certo punto, dopo mesi di terapia, abbiamo cominciato pian piano a riavvicinarci. Finché ho capito che, comunque le cose fossero andate, ero pronta per ridiventare mamma. E, proprio in quel momento, in un periodo di massima beatitudine e leggerezza personale, ho scoperto il cancro al seno sinistro.
(FINE PRIMA PARTE)