“Anche se tutto ciò può sembrare l’illusione di un contadino che ha tentato invano di tornare alla natura e al fianco di Dio, desidero ugualmente diventare colui che pianta questo seme. Niente mi renderebbe più felice che conoscere altre persone che la pensano allo stesso modo”. [Masanobu Fukuoka]
La prima volta, meno di un anno fa che mi imbatte in un video di Fukuoka, non lo vidi nep-pure. Mi dissuase da farlo lo stesso titolo “l’agricoltura del non fare”. Credevo fosse la classica solfa sul fatto che non si deve fare assolutamente nulla. Sia chiaro, io conosco la nobiltà di certi principi che si collegano all’antico pensiero taoistico. Ma è una fase della mia vita in cui credo ci voglia davvero tanto impegno e vedo un po’ troppe volte persone che non mirano a fare assolutamente nulla, e che nobilitano il loro non volere alzare il culo dalla sedia richiamandosi ai nobili principi del “non fare”.
Pensavo che ciò che Fukuoka esprimesse sarebbe stato un effettivo non fare assolutamente nulla. E non mi interessava sentire un’altra persona che diceva come la cosa migliore che una persona deve fare è non fare assolutamente nulla, e nel caso della terra, mettersi comodo e a-spettare che le piante si formino da sé.
Quando, comunque sia, spinto dalla curiosità, mi trovai a leggere il piccolo saggio di Fukuoka, “La rivoluzione del filo di paglia”, capii che non avevo capito assolutamente nulla. Che il non fare di Fukuoka non era il non fare pigro del fancazzista, non era il prendersela comoda e non muovere un dito. Il non fare di Fukuoka era semmai un fare molto più intenso, che presuppo-neva una messa in discussione radicale del proprio modi di “vedere” e di vivere, e che, allo stesso Fukoka era costato più di trenta anni di impegno per arrivare a concretizzarlo. Piuttosto che indolenza, si trattava di una vera rivoluzione. Una rivoluzione agricola, ma non solo agricola. Una rivoluzione della vita.
Il sistema agricolo moderno desertifica il terreno, utilizza diserbanti e pesticidi che incidono sullo stato vitale dei cibi, e impoverisce i contadini. Richiede costi enormi che lo leggono di-pendente dal petrolio e che favoriscono i grandi consorzi agricoli, bulldozer della produzione, e la scomparsa dei piccoli contadini.
Ma lo stesso modello classico di agricoltura ha in sé i suoi fattori limitanti. Essa infatti si distingue per quel processo di ripulitura del suolo, capovolgimento della terra e semplificazione biologica del terreno, finché una sola forma di vita non resta nel campo. Esempio, nel caso di un campo di cavolo, questa semplificazione radicale porta a che in quel campo ci siano solo cavoli. Insetti, lombrichi, altre piante, altre sostanze, tutto il resto insomma, deve essere spazzato via. L’obbiettivo degli agricoltori europei è che la sola cosa che deve rimanere in piedi in un campo di cavoli, devono essere i cavoli.
Questo modello agricolo basato sul duro lavoro, l’aratura del terreno e la coltivazione omogenea fu il modello agricolo valido da millenni in Europa e che fu poi “esportato” nelle Americhe e da lì in gran parte de mondo.
L’agricoltura classica richiedeva molta fatica fisica, ma era poco tecnologica, non conoscendo strumentazioni meccaniche e prodotti chimici.
L’agricoltura capitalistica invece inonderà il processo della coltivazioni con macchinari funzionanti con prodotti chimici. E’ un’agricoltura di impianto industriale, che mira ad ottimizzare i ricavati favorendo la grande concentrazione di terra nelle mani di grandi gruppi economici, a volte sovranazionali, e che procede invasivamente nei confronti del terreno, rendendolo progressivamente più arido.
Già l’agricoltura classica si basa sull’arare il terreno, dedicandolo per intero, o per zone omogenee a un singolo prodotto (alcuni metri quadrati alla lattuga, alcuni metri quadrati al grano, ecc.).
Con l’agricoltura industriale questo processo si accentua. Progressivamente diminuisce la fertilità del terreno che porta anche ad un indebolimento delle piante che diventano più attaccabili da malattie e infestazioni. Tutto ciò richiede quindi un crescente “correre in soccorso” dei terreni con concimi animali e vegetali decomposti e, sempre di più, con fertilizzanti chimici. Più la produzione diventa industriale, più si procede nell’utilizzo del terreno, più la sua sostanza vitale si indebolisce, diventa sempre meno capace di “rispondere”, e allora lo si deve “bombardare” con “sollecitazioni” sempre più potenti, fino all’uso massiccio di pesticidi e fertilizzanti chimici, senza i quali ormai, migliaia di ettari sembrerebbero un campo morto.
Nell’agricoltura classica questo processo di inaridimento del suolo era meno intenso, però era un’agricoltura che richiedeva un durissimo lavoro fisico da parte dei contadini. L’agricoltura capitalistica richiede meno lavoro, ma anche meno lavoratori; che si cerca di ridurre al mimino ottimizzando la funzionalità delle macchine.
L’agricoltura di Fukuoka rappresenta un’alternativa radicale tanto all’agricoltura classica che a quella industriale.
Nato nel 1913 nell’isola di Shikoku, nel Giappone del Sud, Fukuoka studiò da microbiologo e fu ricercatore della fertilità del suolo e delle patologie delle piante. A ventanni Fukuoka era impiegato presso l’ispezione dei vegetali presso la dogana di Yokohama. Era perfettamente integrato con le tecniche agricoli normali. Finché si ritrovò a vivere una profonda crisi esistenziale, che gli fece sentire l’inutilità di tutto quello che stava facendo. Mollò tutto e iniziò a percorrere i monti e le montagne del Giappone, come spinto alla ricerca di qualcosa, qualcosa che neppure lui sapeva cosa fosse. Finché un giorno non ebbe un momento di “illuminazione”. Sentì che tutto l’impegno dell’uomo aveva alterato la vita ritorcendosi contro l’uomo stesso. Che la conoscenza intellettuale era inutile, che la via era stata totalmente smarrita.
“Tutto ciò che mi aveva dominato, tutte le angosce, scomparvero come sogni e illusioni e una cosa che si potrebbe chiamare ‘natura vera’ se ne stette lì davanti rivelata”.
Nel valutare un percorso è importante tenere presente il contesto culturale e simbolico di riferimento. Parole come “non fare”, “non azione”, “vuoto”, si innestano su un codice culturale millenario orientale che si richiama al Taoismo e al Buddismo Zen. Ciò che voglio dire è che il messaggio profondo di Fukuoka è capace di trasmettere un senso per persone di qualunque parte de mondo, al di là dei riferimenti al “non fare”, e al taoismo del “non sforzo”. E’ il senso di base che potrà parlare al di là delle parole e delle differenti dimensioni storiche e culturali.
Tornando a Fukuoka, dopo questo momento di “illuminazione”, decise di tornare al lavoro dei campi. Non “semplicemente” per lavorare, ma per arrivare a “sfrondarsi” di tutto quello che ancora sentiva non gli impediva di vedere la sua “visione” in una dimensione concreta. Cominciò a farsi tante domande, come “E se si provasse a non fare questo? E si provasse a non fare quest’altro?”; a cui seguirono pratiche e sperimentazioni. Nel corso delle quali gli fu chiaro che tante delle cose che venivano poste in essere in campo agricolo, e che erano considerate imprescindibili, non servivano:
“Alla fine arrivai alla conclusione che non c’era alcun bisogno di arare, alcun bisogno di dare fertilizzanti, alcun bisogno di fare il composto, alcun bisogno di usare insetticidi”.
Il piccolo campo su cui iniziò a lavorare era quello del vecchio padre e dovette lottare contro le sue contrarietà per attuare le sue “visioni”. Mano a mano cominciò a non potare gli alberi, a non concimarli, a non trattarli chimicamente, a lasciare fare la natura.
Ma, dopo quattro anni l’agrumeto era morto.
Capì allora CHE NON BASTAVA LASCIARE FARE LA NATURA. Come potrebbero pensare tutti i pigri e gli indolenti che leggono di agricoltura del “non fare”.
Non bastava lasciar fare alla natura quindi. BISOGNAVA PRIMA LIBERARLA.
La terra era stata debilitata e contraffatta da secoli di agricoltura intensiva, di distruzione degli insetti e dell’humus naturale, di culto del profitto, di concimazioni chimiche, La natura originaria era stata sepolta. Bisognava, quindi, in un certo senso, ricrearla.
L’agricoltura moderna era deleteria. Ma anche quella tradizionale non andava bene. Bisognava andare nel nucleo stesso della terra. Ispirandosi a concetti come il “mu” – che potrebbe essere tradotto come “nulla” (ricordando che nel contesto delle tradizioni spirituali cinesi e giapponesi parole come “nulla” e “vuoto” assumono sensi più profondi di quelli che essi possono assumere in Occidente)- cercò di assecondare l’equilibrio intrinseco della natura. Le sue stesse esperienze concrete lo “illuminano” sempre di più su questo percorso. Un giorno, passando per un campo di riso abbandonato, vide piante di riso crescere tra le erbacce. Questa esperienza contribuì a guidarlo nei suoi tentativi che si concretizzarono in un’agricoltura basata su quattro pilastri fondamentali:
1. Nessuna lavorazione. Il terreno non deve essere arato e capovolto. Questa pratica che da sempre viene associata all’agricoltura, impoverisce e inaridisce progressivamente il terreno.. Questo smentisce secoli di lavoro con l’aratro. La terra in un certo senso si lavora da sé grazie all’azione di microrganismi, dei piccoli insetti, dei lombrichi e alla penetrazione delle radici e alla attività del suolo. L’uomo interviene per “guidare” e coordinare la corretta coesistenza degli elementi, ma in modo coerente con la spontaneità naturale. Questo principio smentisce secoli di attività agricola basata sull’aratura e il disossamento del terreno.
2. Nessun concime chimico o compost. Queste pratiche provocano un impoverimento del suolo.
3.Nessun diserbante..Le piante spontanee svolgono un ruolo importantissimo nella fertilità del suolo e nell’equilibrio complessivo dell’ecosistema. Esse non vanno spazzate via come si è soliti fare. Non significa che possano proliferare incontrollate. Ma vanno controllate appunto, in modo, da permettere loro di svilupparsi in coerenza con l’equilibrio di quel contesto agricolo. Le cosiddette erbacce contribuiscono alla fertilità del suolo e all’azine contro agenti patogeni e insetti distruttivi.
4. Nessun impiego di prodotti chimici. Questo quarto pilastro contribuisce a dare l’idea della lontananza siderale dell’agricoltura naturale di Fukuoka da tutto ciò che collegato con l’agricoltura moderna capitalistica. Spesso viene detto che i prodotti chimici nessuno li ama, ma sono una necessità. Ma perché sono una necessità? Sono una necessità proprio perché si aderisce a certe impostazioni agricole. Da cosa nasce cosa, insomma. Pratiche non naturali come l’aratura e la concimazione hanno contribuito nel tempo allo sviluppo di piante deboli. Il suolo “desertificato” dal sistema di aratura e di coltivazione omogenea è stato depotenziato nella sua capacità di difesa, e le piante, indebolite per questo tipo di pratica agricola, sono molto più esposte ad agente patogeni ed insetti. Non sono gli insetti in sé ad essere un grande problema. Ma è il contesto devitalizzato e indebolito che li rende tali. Mentre coltivazioni forti e varie, in un terreno ricco di funzionalità organica, rende molto più difficile l’azione di insetti e agenti patogeni. Nessuna dipendenza da prodotti chimici significa non agire sull’ambiente con sostante e prodotti che lo renderanno malato, che lo renderanno sempre più simile ad un ambiente morto.
Come abbiamo visto, Fukuoka respinge l’aratura, che, nel tempo, fa diventare il terreno diventa meno poroso e più duro. Col suo sistema “integrale”, la fertilità del terreno non solo rimane stabile, ma aumenta, stagione dopo stagione.
Fermiamoci un attimo e pensiamo. Fertilità che aumenta. Nella nostra mente la lotta per mantenere il terreno fertile è una sorta di battaglia titanica che richiede mezzi sempre più agguerriti e chimicamente intensificati. Che, a ben vedere, non rendono più fertile il terreno, ma consentono di “strappargli”, ancora altri raccolti.
Enormi quantità di terreno sottoposto ad agricoltura industriale è stato talmente deprivato che “da solo”, senza costose macchine, fertilizzanti chimici e altro, non potrebbe produrre quasi nulla.
Fukuoka quindi, non usava macchinari agricoli e prodotti chimici.
Non erano presenti monocolture, perché come abbiamo compreso, la “varietà” è decisiva per la ricchezza del terreno e la ricchezza vitale delle piante. Questo vuol dire che non ci sono due metri quadrati, ad esempio, solo coltivati a lattuga. Ma che in quei due metri quadrati lattuga, rucola, trifoglio e alcune erbacce coesistono. I vari tipi di coltivazione e di vegetazione sponta-nea –tipo erbacce- si potenziano a vicenda, ostacolando, in modo naturale, l’azione degli insetti e rendendo più ricco il terreno. Come abbiamo visto col secondo dei principi della sua agri-coltura, le erbacce svolgono un ruolo appunto. Anche questo smentisce secoli di agricoltura. Tutti hanno sempre pensato che le piante infestanti danneggiassero i raccolti. Ebbene Fukuoka fece notare che:
1-in natura le piante vivono e crescono insieme;
2- le radici delle erbe penetrano a fondo nel terreno smuovendolo e facendo entrare aria;
3 -quando le erbe concludono il loro ciclo vitale, forniscono l’humus che permette ai micror-ganismi della biosfera di svilupparsi arricchendo e fertilizzando il terreno. Quando la coltura guadagna un certo vantaggio sulle erbacce, lascia crescere queste liberamente. In questo modo, le erbacce formano un substrato, che protegge microbiologicamente il terreno, e ne mantiene la fertilità, senza tuttavia ostacolare la coltura.
Questo valorizzare le spontaneità della natura è appunto “non fare”. Che, adesso possiamo capirlo meglio, non è puro sedersi sotto un albero a non fare una mazza. Innanzitutto va fatto un lavoro di anni di “liberazione” del terreno, e di rivitalizzazione. E poi questa varietà di col-tivazione, va in un certo senso “guidata”, bisogna fare coesistere questa diversità. Potremmo definirlo una sorta di “caos armonico”.
Le cose che Fukuoka contesta nei quattro principi si tengono a vicenda. Quando il terreno col-tivabile muore, diventano necessarie le macchine sarchiatrici. Quando il suolo è impoverito, diventano utili i fertilizzanti e quando crescono piante deboli e malate, acquistano valore i di-serbanti e i pesticidi. Per lui nessuno dei materiali usati in agricoltura è assolutamente neces-sario. Acquistano valore solo quando la natura va in rovina.
Fukuoka, tra le altre cose, innovò completamente il sistema della risaia. Nonostante non arasse la risaia per tutta l’estate, col suo campo di riso otteneva i risultativi una risaia moderna che richiede quantità ingentissime d’acqua e spesso l’utilizzo di fertilizzanti e pesticidi.
Le sue idee e la sua esperienza sono furono raccolte nel libro “La rivoluzione del filo di paglia” che fu pubblicato nel 1975
La via di Fukuoka è l’antitesi radicale del modello industriale. Modello che può essere sintetizzato in questi elementi:
-Concentrazione di grandi appezzamenti di terreno in poche mani.
-Gestione secondo l’ottica del maggior profitto possibile.
-Riduzione al minimo dell’elemento umano, utilizzo di macchine agricole sempre più moderne e dipendenti –non dimentichiamolo- dagli idrocarburi derivanti dal petrolio.
-Utilizzo massiccio di pesticidi, diserbanti e concimi chimici. Utilizzo che aumenta in modo direttamente proporzionale all’inaridimento del terreno prodotto da questo stesso modello agricolo.
-Produzione di cibo devitalizzato che non corrisponde ai bisogni del corpo umano, quando non arriva a indebolirlo (come sembra avvenga, ad esempio, con alcune delle produzioni “a serra”).
Fukuoka dimostrò che questo modello non era l’eccesso di un processo comunque inevitabile, ma che un’altra strada era percorribile. Ciò che sembra inevitabile in campo agricolo, lo è in base “all’attuale stato di cose”, alla presenza di presupposti che creano conseguenze, all’interno delle quali certe strategie diventano quasi obbligate. La ragione per cui le tecniche avanzate sembrano necessarie –dice Fukuoka- è che l’equilibrio naturale è stato precedentemente così sconvolto a causa di quelle stesse tecniche, che la terra è diventata tale da non poter fare a meno di loro. Questa logica non vale naturalmente solo per l’agricoltura.
Gli economisti moderni hanno naturalmente hanno riso di queste idee e hanno bollato come sbagliata l’agricoltura su piccola scala, e basata su metodi naturali come se qualcosa di primitivo. La visione è quella dell’ottimizzazione del profitto. Si incentiva l’aumento della superficie agricola in modo da attuare la coltivazione agricola su vasta scala di stampo americano.
Ma gli economisti spesso si caratterizzano per la loro stupidità e miopia. Più di sessant’anni di risultati notevoli dimostrano la potenza della visione di Fukuoka, della sua “follia”. I risultati quantitativamente non erano inferiori a quelli che avrebbe prodotto l’agricoltura industriale. Con la “piccola” differenza, che quella distrugge il terreno e produce cibo vitalmente debole, quasi morto, mentre l’agricoltura di Fukuoka potenzia la vitalità del terreno e produce cibo ricco di forza energetica.
Grazie alle sue intuizioni Fukuoka ricrea la “natura vera”, riproduce quanto più fedelmente possibile le condizioni naturali del suolo. Con l’agricoltura naturale il suolo, già danneggiato da pratiche agricole convenzionali, può essere efficacemente riabilitato.
Fukuoka diceva: La pratica agricola in Fukuoka non è “semplicemente” una pratica di coltivazione del cibo. Ma si tratta di una vera e propria coltivazione della vita. “Lo scopo vero dell’agricoltura non è quello di far crescere i raccolti, ma è la coltivazione e il perfezionamento degli esseri umani” , diceva.
La visione di Fukuoka è una visione filosofica che abbraccia l’integralità dell’esistenza. L’agricoltura diventa una via per il perfezionamento degli esseri umani, per la riconquista di una dimensione vitale ricca e profonda.
Un visione che si integra anche in una prospettiva sociale di largo respiro. Contro il modello industriale-monopolistico delle grandi corporation del cibo, che si servono di sempre meno es-seri umani, ridotti a “dipendenti”, Fukuoka sostiene immagina una moltitudine di piccoli appezzamenti gestiti in modo indipendente dagli stessi che li coltivano.
Per Fukuoka tutti dovrebbero coltivare la terra, da cui avrebbero sostentamento per tutta la famiglia, e in caso di agricoltura naturale, molto tempo per libertà e attività sociali. Una possibile via di mezzo, che rappresenterebbe comunque un cambiamento radicale rispetto allo stato di cose esistente sarebbe immaginare che siano moltissimi –anche se non tutti- a coltivare la terra, molti di più di coloro che la coltivano adesso. La diffusione di una moltitudine di terreni coltivati, di piccole aziende agricole o territori coltivati, permetterebbe di recuperare tanti terreni abbandonati, di creare nuove occasioni di lavoro, di favorire l’indipendenza alimentare dei territori, e la possibilità per le persone che abitano in quei territori di potere ricorrere a questa nuova moltitudine di piccoli coltivatori locali, per avere cibo prodotto in loco e di grandissima qualità, cibo vitale, altamente energetico.
Alla luce delle ultime riflessioni si comprende come, non si tratta solo di coltivare.
Si tratta di fare una rivoluzione umana.
Risanare la terra.
Ricostruire la natura.
Rigenerare il cibo.
Potenziare lo spirito.
Gli ultimi quindici anni della sua vita Fukuoka li ha dedicati all’impegno di restituire fertilità ai territori aridi e desertificati del mondo.
Una delle principali tecniche usate per tale scopo è stata quella delle palline d’argilla.
In pratica, invece di sotterrare direttamente i semi, essi vengono avvolti in primo luogo da uno strato di terra, e poi da uno strato di argilla, creando così delle palline che li contengono e contengono anche i microbi. I semi daranno di qualsiasi tipo: ortaggi, alberi da frutta, specie forestali, cereali.
L’argilla inoltre protegge il seme da roditori, insetti, uccelli, fino al momento della germina-zione.
Andranno piantati in quel territorio desertico varie tipologie di semi, e ognuna di esse in un numero abbondante.. Le prime piogge genereranno l’umidità necessaria alla germogliazione. I semi che germoglieranno saranno quelli che l’habitat di quel territorio selezionerà. Si semina quindi in abbondanza e varietà, poi sarà la natura di quel territorio a decidere.
Con queste tecniche ha ottenuto buoni risultati in Somalia, Etiopia e Tanzania, riuscendo a creare anche piccoli orti e, in alcuni casi, dopo sei mesi sono spuntate piante di papaia e bana-ne. Ha ricostruito la vegetazione in aree deserte dell’India. In Grecia, in collaborazione col ministero dell’agricoltura greco organizzò eventi di semina che coinvolgevano più di tremila persone tra volontari, studenti e gente del posto. Era convinto che in 5 anni si poteva ricreare terreno fertile e riconvertire le distese desertiche della Grecia in foreste, facendo aumentare la precipitazione dopo 10 anni.
Infatti una delle obiezioni che qualcuno potrebbe fare all’azione di Fukuoka per rendere fertili le aeree deserte è che quel terreno è desertico per un contesto ambientale che, ad esempio non prevede che in casi rari la presenza di piogge. Ma Fukuoka pensava che un deserto è secco perché non piove, ma non piove in quella zona proprio perché c’è un deserto.
Fukuoka raccontava: “Quando ero nel deserto degli Stati Uniti, ho percepito che la pioggia non cade dal cielo ma sorge dal suolo. I deserti non si formano perché non c’è la pioggia, al contrario, la pioggia non cade perché la vegetazione è scomparsa”.
Nonostante gli ottimi risultati sul piano della desertificazione i costi molto bassi, non ha ricevuto sostegno e approvazione da parte della governante globale, probabilmente diffidenza piuttosto. Forse perché i suoi metodi rischiano di essere efficaci, e di fare comprendere ancora di più l’inutilità di quell’enorme carrozzone di ONG, funzionari ONU, esperti, fondazioni, professori che si “occupa” delle problematiche del mondo.
Sulla base delle intuizioni e dei risultati di Fukuoka sarebbero poi nate l’agricoltura sinergica e la permacoltura, per merito di Emilia Hazelip (1938-2003) –agronoma e naturalista spagnola- che adattò gli insegnamenti di Fukuoka adattandoli alla cultura e alle condizioni climatiche occidentali.
L’agricoltura sinergica venne introdotta per la prima volta in Spagna.
Successivamente Emilia Hazelip, introdusse in Francia un concetto ancora più esteso rispetto all’agricoltura sinergica, quello di permacultura.
Fukuoka ha lasciato questo mondo il 16 agosto 2008.
Un estratto dal suo primo libro..
“Da questo solo filo di paglia può cominciare una rivoluzione. Questa paglia sembra piccola e leggera, la maggior parte della gente non sa quanto sia pesante in realtà. Se sapessero il vero valore di questa paglia, questo filo potrebbe diventare abbastanza potente da muovere il paese e il mondo”.
Un altro estratto, dalle dichiarazioni fatte in suo viaggio in USA, disse:
“Sono un uomo piccolo, come vede, ma sono venuto negli Stati uniti con una grandissima intenzione. Quest’uomo piccolo diventa sempre più piccolo e non durerà a lungo; vorrei quindi condividere con voi la mia idea di 50 anni fa. Il mio sogno è come una bolla di sapone. Potrebbe diventare sempre più piccolo oppure via via più grande. Se lo potessi dire in breve, direi la parola “nulla”. In una maniera più ampia, potrebbe avvolgere l’intero pianeta.”